JE SUIS…

“Ich bin ein Berliner”, disse John Fitzgerald Kennedy, Presidente degli Stati Uniti d’America nel 1963 a Berlino Ovest, durante il discorso in Rudholf Wild Platz. “Io sono un berlinese”.
E oggi, più di mezzo secolo dopo, per ogni strage, per ogni oltraggio sanguinario perpetrato all’umanità e alla civiltà, con ogni più malsana immaginazione, siamo a dichiarare “Je suis…” riferendoci alla gente del Paese europeo vittima di questo fondamentalismo islamico che ci massacra. Che tortura e uccide indiscriminatamente, non solo da noi, ma ormai dappertutto. Qui come in altre parti di questo disgraziato pianeta.
Poi, come formiche superstiti alle quali un gigante ha sfasciato il formicaio, ricopriamo i luoghi di dolore di candele e fiori, biglietti e pupotti, omaggio ai tanti innocenti di tutte le età che sono morti o hanno subito ferite strazianti.
Tante lacrime, discorsi, presenze ufficiali in rappresentanza, discorsi papali e religiosi di ogni credo. Anche qualche scarso e altezzoso intervento di iman che non possono proprio esimersi dal partecipare.
E lo stesso sui social dove si sprecano le bandiere con l’ormai collaudato “Je suis…” e qualche R.I.P. E finisce qui, Sì, perché cos’altro si può fare se non coltivare il dolore e l’indignazione mentre la nostra politica europea si dà un gran daffare a tenerci buoni, noi e gli altri, quelli per i quali la nostra pelle non vale niente.
Anzi, ci andrebbe tolta.
Intanto i servizi segreti indagano, poliziotti e forze armate ci difendono, come se fosse possibile che grazie a tanti ombrelli, in caso di pioggia, nemmeno una goccia riesca a bagnare il suolo.
E la vita continua, imponendoci di non cedere alla brutalità, di conservare le nostre abitudini dimostrando che non cederemo mai alla violenza di quell’Islam teocratico, intollerante, dispotico e conquistatore che, sarebbe bene ricordarlo, esiste da secoli.
Ma tutto questo ci segna inevitabilmente, anche se la stragrande parte di noi continua ad affollare le piazze, i luoghi pubblici, i check-in degli aeroporti, le manifestazioni sportive e canore.
Ci segna dentro, ci angoscia e ci fa capire che la nostra vita è cambiata, volenti o nolenti, e se prima non badavamo al fatto che al mondo c’era chi non ci amava e rispettava e continuavamo indifferenti la nostra vita, ci fa comprendere, finalmente, come si sta in Israele dove tutto ciò lo si vive da sempre, anche se noi viviamo in una Europa che ancora non sa mondarsi dell’antisemitismo e non sa nemmeno vergognarsene.
Se fossi uno di quelli che si sente in dovere di postare un “Je suis” sulla mia pagina di FB, allora scriverei in grande “JE SUIS JUIF! – Io sono ebreo!” - ma non serve perché chi la pensa come me, dovrebbe averlo già inciso nel cuore e nel cervello.

paolo carbonaio





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